La Siria distrutta nel nome di cosa?

Se avessimo chiesto a un qualsiasi siriano, 5 anni fa, se avesse mai ucciso un suo compaesano perché di religione diversa, avrebbe riso e detto “non facciamo queste differenze, mica siamo il Libano“.  Oggi non vediamo altro che famiglie intere con bambini attraversare scalzi le strade del proprio paese per scappare da una guerra assurda. E non arriva cibo, non arriva acqua, non arriva alcun aiuto… La maggior parte dei profughi siriani cerca di raggiungere il Libano o, ancor più, la Turchia, la quale assegna aiuti per 400 lire turche (l’equivalente di circa 100 euro).

Il simbolo di questa guerra infinita sono i bambini; quei bambini che come i nostri avrebbero il diritto di andare a scuola, di godersi la propria famiglia, di giocare e divertirsi e che invece sono costretti a sopportare il dolore e l’angoscia di vedere la morte in faccia. L’immagine di Omran Daqneesh, il bambino siriano diventato simbolo delle atrocità della guerra in medio oriente, ha colpito il mondo ed ha forse “sensibilizzato” la nostra società verso la crudezza del conflitto in corso.

Tuttavia, nonostante la pausa dalla distruzione, la fine di questo incubo sembra ancora lontana. E allora la domanda che mi pongo è: quanto caro dobbiamo pagare il prezzo per la cosiddetta “democrazia”? Vale la pena? Quante persone devono morire nel nome di questo ideale? La democrazia si può costruire sulla base di una generazione che sarà ignorante per via di una guerra assurda? Rimane quindi da capire se questa guerra venga combattuta realmente per esportare democrazia oppure per gli interessi di grandi potenze. Siamo alle solite insomma, è questo il dubbio ricorrente quando si parla di medio oriente dal 2001 ad oggi.

Spesso dimentichiamo che l’astio per Assad è nato circa nel 2002/2003, quando gli Usa progettavano l’assalto all’Iraq. La guerra iniziò con la motivazione di difendere gli interessi dell’occidente contro le armi chimiche che Saddam era riuscito ad ottenere (questione mai provata realmente). I dubbi sono tanti, e l’idea che tutto ciò fosse solamente un pretesto per aggredire quella che era una posizione strategica, si è fatta avanti in maniera decisa. Lo stesso discorso potrebbe riguardare l’attuale conflitto; non dimentichiamo che la Siria ha una posizione geograficamente strategica (confinante con Iran, Israele, Iraq, Libano e Turchia). Storicamente questa è un’area di forte interessamento geopolitico e oggi vale lo stesso identico discorso: in Erdogan e nella Turchia ancora vive il sogno di un grande Impero Ottomano, la Russia con Putin non ha mai nascosto negli ultimi anni le sue grandi ambizioni tipiche dell’epoca zarista e tutti conosciamo quali sono gli interessi economici degli americani nell’area medio orientale.

La Siria, prima del conflitto e dell’avvento dell’Isis, era si un regime autoritario, ma comunque una Repubblica Semipresidenziale, dove una vita dignitosa era comunque garantita ai cittadini. Non c’erano grossi fenomeni di emigrazione e tanto meno conflitti tra fazioni interne. Sembra quasi assurdo che, l’Isis, sia riuscito a porre la propria sede principale in quello che appariva come uno degli stati più democratici e “prosperi” dell’area circostante.
I dubbi sono tanti e, inevitabilmente, si riversano nella figura dell’attuale Presidente Assad. Ciò che è certo però, è che, ad oggi, la Siria è un Paese distrutto, da tutti i punti di vista. Ci vorranno decenni per ricostruire tutto, in particolare l’animo di un popolo.

Habiba Manaa

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