40 anni dal delitto Moro: ombre del passato, dubbi del presente

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Prima che il lettore inizi a scorrere gli occhi su queste righe è opportuno porre una premessa: è alquanto improbabile che un articolo, così come pure una serie di essi, possano ristabilire l’ordine delle cose e spannare il vetro opaco che separa la menzogna dalla verità su una delle pagine più indicibili della storia della nostra Repubblica.
E’ mia intenzione, invece, analizzare alcuni delle crepe salienti e maggiormente profonde del fantoccio della “verità di stato“. Farò questo dapprima sotto una chiave puramente crono-storica, ed in un secondo momento sotto una luce, una prospettiva più sottile.Il 9 Maggio del 1978 viene ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 Rossa a Roma, in Via Caetani 9, il corpo esanime di Aldo Moro, l’allora Presidente del Consiglio della Repubblica italiana: aveva 61 anni.
A distanza di 40 anni dalla sua dipartita, ancora sono molti gli interrogativi che gli inquirenti, i media e l’opinione pubblica più in generale, si pongono riguardo ai moventi, e ai mandanti, della sua morte.

La versione “ufficiale” maggiormente accreditata è quella che Moro, poche settimane prima della sua morte, avesse espresso l’intenzione di costituire un governo di “solidarietà nazionale”, ove al suo interno fosse ricompresa anche una maggioranza parlamentare proveniente dal Partito Comunista Italiano: il così detto compromesso storico.
Un’opera politica che, inutile dirlo, inquietava non poco gli USA che avrebbero sicuramente visto minacciato il loro “status quo”.
Quindi, secondo la versione ufficiale, il 16 Marzo 1978 le BR trucidano la scorta del Presidente in Via Fani e lo rapiscono, uccidendolo dopo 55 giorni di prigionia vissuti nel covo di Via Montalcini 8, a Roma.

Tuttavia, troppi dubbi ancora aleggiano sulla modalità con le quali sono state condotte le indagini: a partire dal fatto che, durante l’autopsia di Moro, furono ritrovati sui pantaloni e addirittura fin dentro i propri calzini, quantità di sabbia e filamenti d’erba che fanno pensare che, la natura del covo, dovesse essere ben diversa da quello angusto e di pochi metri quadrati, e senz’altro privo di questi elementi, quale invece era quello di Via Montalcini.
“Mi trovo in uno stato di discreta salute” diceva in una sua lettera rivolta alla propria famiglia; uno stato fisico, una libertà di movimento, che non sarebbe mai stato possibile garantirgli in un bugigattolo di (esattamente) quattro metri quadrati. Questo fa pensare che Moro sia stato trasferito in un altro “covo”, o comunque in altra destinazione prima del suo effettivo omicidio (forse una località marina o vicino a laghi), e che solo successivamente sia stato caricato nella Renault 4 Rossa condotta poi sul luogo del ritrovamento.

Ma non è il solo “covo” interessato alla vicenda sul quale, a distanza di decenni, sorgono seri interrogativi sul ruolo giocato nell’operazione Moro. Infatti, i brigatisti Mario Moretti e Barbara Balzerani, direttamente coinvolti nell’eccidio della scorta di Via Fani, abitavano a Roma in un appartamento in Via Gradoli 96. Tuttavia, l’intestatario di questo appartamento era l’allora funzionario del SISDE Vincenzo Parisi, che deteneva anche un secondo immobile nella medesima via ma al civico 75.
Nello stesso palazzo scelto dai brigatisti v’erano inoltre altre abitazioni di proprietà del Sisde e del Ministero degli Interni. Queste parole vengono dalla bocca dell’ex deputato di Alleanza Nazionale Vincenzo Fragalà che, insieme ad altri esponenti politici di opposizione, presentò alla Camera un’interrogazione rivolta al Ministero dell’Interno e a quello di Grazia e Giustizia per capire il perché la Commissione Stragi, allora presieduta dal senatore del PCI Giovanni Pellegrino, non abbia approfondito di chi fosse la proprietà degli appartamenti di Via Gradoli.

Via Gradoli torna con veemenza a far sentire il suo nome attraverso un episodio piuttosto “insolito”, ossia la seduta spiritica del 2 Aprile 1978 tenutasi a casa del Professor Alberto Clò (in seguito Ministro dell’Industria sotto il Governo Dini), in cui Romano Prodi, Mario Baldassarri (all’epoca CdA ENI, poi senatore e viceministro dell’economia in quota AN) e lo stesso Clò parteciparono.

“Era un giorno di pioggia, facevamo il gioco del piattino, termine che conosco poco perché era la prima volta che vedevo cose del genere. Uscirono Bolsena, Viterbo e Gradoli. Nessuno ci ha badato: poi in un atlante abbiamo visto che esiste il paese di Gradoli. Abbiamo chiesto se qualcuno sapeva qualcosa e visto che nessuno ne sapeva niente, ho ritenuto mio dovere, anche a costo di sembrare ridicolo, come mi sento in questo momento, di riferire la cosa. Se non ci fosse stato quel nome sulla carta geografica, oppure se fosse stata Mantova o New York, nessuno avrebbe riferito. Il fatto è che il nome era sconosciuto e allora ho riferito.” dichiarò Prodi alla Commissione Moro il 10 Giugno 1981.
Prontamente, le istituzioni procedettero ad effettuare un blitz nel Viterbese, nel comune di Gradoli, ovviamente senza risultati. Inutili le pressioni della vedova di Aldo Moro nel notificare agli inquirenti, più volte, dell’esistenza di una Via Gradoli anche a Roma ove sarebbe stato quantomeno onesto il tentativo di un’investigazione: inascoltata la sua voce, anzi, smentita dall’allora Ministro dell’Interno Francesco Cossiga.

Questi, tuttavia, sono soltanto alcuni degli elementi oscuri della vicenda Moro, che approfondirò con più precisione nei prossimi articoli.

Autore: Francesco Maone

 

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