La rivolta dei ‘colpevoli’ alle chiusure anti-Covid

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«Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando.»[1]


[1] A. Camus, L’uomo in rivolta. Saggi, Parigi, 1951.

Chiusure anti-Covid

È da una settimana che assistiamo a manifestazioni, più o meno pacifiche, contro le chiusure anti-Covid imposte dal Dpcm del 24 ottobre. Il decreto, ormai ben noto, prevede la chiusura anticipata alle 18 di bar e ristoranti, oscure anticamere dell’alcova, mette il sigillo a palestre e piscine, nonché a teatri e cinema, promiscui luoghi di perdizione, e relega il 75% della didattica su una piattaforma virtuale, facendo lentamente morire l’Università sottraendole spazi. Inoltre, Zingaretti emana l’ordinanza che vieta gli spostamenti in orario notturno su tutto il territorio della Regione Lazio, dalle ore 24:00 alle ore 5:00 del giorno successivo, per evitare i contagi notturni, facendo entrare in vigore un vero e proprio ‘coprifuoco’, termine che Conte preferisce non usare per non allarmare nessuno.

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Napoli, 23 ottobre 2020

La rivolta di Napoli

E proprio quando De Luca minaccia ulteriori restrizioni con toni beceri, Napoli esplode nella prima notte del coprifuoco, commercianti e ristoratori, con un seguito di facinorosi, si riversano nelle strade della città, innestando focolai di proteste in tutta la Regione: cassonetti in fiamme, bottiglie in frantumi e fumogeni illuminano la notte del 23 ottobre. Le forze dell’ordine non sanno come intervenire, anche i Carabinieri sono costretti ad arretrare davanti alla folla che chiede alla Polizia di ribellarsi. Indubbia è la violenza, ma quando mai una rivolta, ossia un atto di sollevamento del popolo contro un ordine costituito, è pacifica? Per citare Camus, «negativa in apparenza, poiché nulla crea, la rivolta è profondamente positiva poiché rivela quanto, nell’uomo, è sempre da difendere» e queste persone scese in piazza rivendicano il diritto al lavoro, proprio perché la nostra è una Repubblica che si fonda su di esso. Prevenire i contagi significa mettere arbitrariamente in ginocchio categorie di lavoratori? E ci si aspetta che non dicano niente? La ribellione diventa dunque l’unica possibilità data all’uomo per trovare una risposta sempre negatagli dall’indifferenza di un mondo assurdo dominato dal non-senso, di una realtà dominata dall’apparizione a sorpresa di Conte.

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Reazione a catena

La rivolta di Napoli innesca un domino: il giorno seguente anche a Roma, a Piazza del Popolo, i manifestanti a mezzanotte hanno sparato fuochi d’artificio tricolore, provocando disordini nel quartiere Flaminio. Lo stesso giorno via Ostiense fa da sfondo al corteo che inneggia “Daje, ce stanno a levà la libertà, svejateve da ‘sto torpore! Forza sveglia!”. Nei giorni seguenti la reazione a catena continua nelle principali città italiane: Brescia, Siracusa, Verona, Catania, Lecce. A Salerno alcuni manifestanti tentano di assaltare l’abitazione privata del governatore De Luca. A Trieste la polizia si è tolta il casco in segno di vicinanza ai manifestanti pacifici, mentre a Roma i ristoratori svuotano bottiglie di birra a Piazza Trilussa e a Milano protestano i tassisti. Lanci di molotov e forze dell’ordine in tenuta anti-sommossa connotano la Firenze di venerdì sera che viene svegliata dai manifestanti al grido di «Libertà, libertà!». Toni più pacati ma non meno indignati assume ‘l’assenza spettacolare’, la manifestazione nazionale del 30 ottobre: in 17 città italiane i lavoratori del mondo dello spettacolo protestano contro «la sospensione degli spettacoli aperti al pubblico in sale teatrali, sale da concerto, sale cinematografiche e in altri spazi anche all’aperto», pur essendo luoghi che avevano già garantito le misure contro i contagi. I manifestanti, categorie di lavoratori a rischio a cui il governo non sta riconoscendo nulla, rivendicano tutte quelle attività culturali etichettate come ‘non essenziali’. Ma viene da chiedersi che cosa sia quell’essenziale di cui tanto si parla: ciò che è ‘inutile’ per alcuni, è indispensabile per altri, come per il mezzo milione di lavoratori, tra attori, fonici, registi, sceneggiatori che orbitano attorno a teatri e cinema. La cultura è dunque arbitrariamente sacrificabile?

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Roma, 30 0ttobre 2020

Epidemie e rivolte sociali

Tutto ciò sembra inaspettato: questa reazione? Ingiustificata. Eppure, il binomio epidemie e rivolte sociali ha radici ben più profonde, tanto lontane nel tempo quanto utili per riflettere sulle possibili conseguenze dell’attuale crisi sanitaria. Nell’Europa della metà XIV secolo regnava il caos economico che portò a tensioni sociali, da quando la peste nera iniziò a dilagare inesorabilmente dal 1346. È curioso notare che, per arginare l’epidemia, le università di Arezzo e di Siena vennero chiuse. Due terzi della popolazione morì, con la conseguenza che aumentarono le terre da coltivare e diminuì la manodopera: la classe dirigente aumentò le tasse, diminuirono i salari dei contadini per evitare la loro emancipazione e stabilì una multa per tutti coloro i quali si rifiutassero di lavorare alla paga prefissata dallo Statuto dei lavoratori del 1351. Il malcontento crebbe fino a sfociare nella cosiddetta ‘rivolta dei contadini’ del 1381: la scintilla fu innescata dalla riscossione delle tasse arretrate da parte di un funzionario, tale John Bampton, in una cittadina dell’Essex. La popolazione, dunque, insorse con violenza e la rivolta si propagò in tutta l’Inghilterra finché la morte del leader degli insorti, Wat Tyler, pose fine alla ribellione.  La storia si ripete quando, alla fine del XVI secolo, la peste si ripresenta in Europa: a Londra la regina Elisabetta I decise di mettere in quarantena la popolazione per prevenire la diffusione del morbo, provvedimento non apprezzato dai cittadini, mentre ad Amsterdam si optò per un servizio di rimozione dei rifiuti dalle strade per migliorare le condizioni igieniche, costruendo un lazzaretto in cui far confluire i malati. La regina ordinò che tutti coloro i quali, avendo piaghe sul corpo, fossero usciti di casa sarebbero stati impiccati e tutti coloro che, pur non presentando sintomi, avessero trasgredito la legge non rispettando la quarantena, sarebbero stati fustigati. Vennero inoltre chiusi i teatri e vietati i raduni per impedire disordini popolari. Condizioni considerate inique soprattutto dalla classe media, ossia artigiani e commercianti, che non potevano sopravvivere senza lavorare. Ecco che nel giugno 1595 scoppiò a Londra la ‘rivolta degli apprendisti’, i quali protestarono per le condizioni di miseria in cui vivevano, per l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e per l’avidità della classe dirigente.

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La rivolta dei contadini del 1381

Tutto ciò suona incredibilmente familiare, vero?

Anche oggi siamo in guerra: contro un virus invisibile, contro chiunque la pensi diversamente da noi, contro chi pensiamo possa diffondere il virus, contro gli ‘untori’, ossia qualsiasi categoria che riteniamo ci possa minacciare: runner, studenti, ristoratori. È una guerra invisibile che, silenziosa, si infiltra tra di noi, mettendoci omnium contra omnes, in una situazione di stasis e di profonda crisi sociale. Il governo non trova i colpevoli: chiude le attività culturali, che non producono nulla di ‘essenziale’ e dà la colpa ai giovani, che non si ribellano, chiudendo tutti quei pericolosi luoghi di perdizione (palestre, biblioteche, bar) che frequentano, mentre i mezzi di trasporto sono stracolmi e i mercati e le industrie rimangono aperti per ‘produrre’ l’utile. Ad ognuno, dunque, la sua scelta: accettare ogni dettame arrivato dall’alto, confidando nel fatto che se una decisione proviene dal vertice politico non può che essere giusta, oppure avere un atteggiamento critico verso ciò che ci viene propinato dai media ed agire secondo buon senso? Dubium sapientiae initium.

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