Start-up e Università, cosa può migliorare?

Mentre sul piano teorico si sente molto parlare di incubatori di start-up e aziende innovative, nella realtà pratica osserviamo una situazione ben diversa. In Italia ci sono solamente 24 BIC, ossia incubatori di start-up, di cui 11 dislocati al Sud.
Sarebbe curioso osservare poi quanti di essi siano controllati, almeno parzialmente, dai rappresentanti delle nostre università Italiane.
Perché è dagli atenei, dalla culla della ricerca, che la vera creatività vincente potrebbe e dovrebbe trovare i professionisti del settore più idonei alla creazione del sogno imprenditoriale. Oltre alla diminuzione dei tempi di raccordo fra startupper e finanziatori, si pubblicizzerebbe soprattutto l’ateneo in sé, diventando quindi molto più appetibile per gli investimenti dei privati, nazionali ed esteri. Chiaramente, tutto ciò in un’ottica dove il soggetto esterno andrebbe a rivestire sì una posizione attiva, ma non predominante se parliamo in termini di partecipazioni azionarie o di capitale. Altrimenti cosa controllerebbero le università?

Qualcuno alla Bocconi lo ha già capito, ed infatti i vertici dell’Ateneo milanese hanno indetto il primo “Start-up day” vinto dall’azienda innovativa bio-tech Wise, aggiudicatasi un master Bocconi dal valore di 15000 euro.
Innovazione, ricerca, tendere la mano a chi ha voglia di fare. E invece no, quello che osservo intorno sono sì segnali che qualcosa effettivamente si muove; ma molto timidamente, come se le coscienze sociali siano ancora ancorate a schemi lavorativi pregressi, ad un mondo lavorativo ormai morto che non tornerà indietro.
Pensate che il suddetto ateneo non monitorerà da vicino Wise? Che non si potrebbe profilare una solida partnership tra i due mondi?

Io sono uno studente di economia e posso parlare per quel che mi riguarda della realtà che vivo tutti i giorni.
Una start-up valida e presente nella nostra università, ad esempio, c’è. Ma parlando con amici, colleghi, studenti in generale, mi accorgo che non molti sono al corrente di quello che succede fuori dalle aule, finita la lezione.
Si parla di fare sempre più corsi di laurea, la riduzione di esami, erasmus… E poi si cade sugli elementi più importanti.
Non serve sapere, se non sai fare. La cultura è importante, ma è ridicolo vedere come manchino, proprio a livello strutturale, delle sedi interne all’Università dove i professionisti universitari ed esterni formino, investano e attirino ragazzi con voglia di praticizzare le proprie idee.

I soldi si possono trovare, ma se manca la volontà nulla si smuoverà.
Non sono un tecnico del settore, ma potrebbe essere una considerabile idea l’insediare, all’interno delle facoltà economiche, piccoli nuclei di grandi aziende volti a formare gli imprenditori del domani.
E siccome non esiste azienda senza collaboratori, molti ragazzi potrebbero essere incentivati ad avvicinarsi tramite queste iniziative al mondo delle start-up, apprendendo dunque molto più di quanto non sia scritto su un volume di diritto privato.

Di chi è la colpa? Forse anche nostra, forse anche mia.
Speriamo che tutto ci cada dal cielo, che ci sia dovuto. Le istituzioni hanno il compito di venirci incontro, ma se non fosse così? Spetta a noi reclamare i nostri diritti, esigere che ci sia data la possibilità di esprimerci al meglio.
Non c’è solo mediocrità al mondo, ma anche molto potenziale a volte, purtroppo, inespresso.
Finché verremo relegati, senza ribellarci, a sorbire nozioni spesso inutili senza pretendere che cambi radicalmente lo schema concettuale del teorico apprendimento universitario, dubito che le facoltà economiche pubbliche potranno svolgere effettivamente, ed efficientemente, le funzioni per le quali sono state predisposte.

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