La fenomenologia della “mezza porzione”: da “C’eravamo tanto amati” ai giorni nostri

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Qualche tempo fa, ho rivisto con piacere uno dei grandi capolavori del cinema italiano, “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola (1974). Non è tanto sulla sinossi che voglio soffermarmi, quanto più su alcune scene significative: pellicole del genere, del resto, non sono nate per soddisfare appetiti economici et similia, ma per imprimere un marchio durevole nello spettatore, come proponeva audacemente la cultura dell’epoca.

La trama si spalma su un arco temporale di circa trent’anni: Gianni, Antonio e Nicola sono tre partigiani, divenuti amici durante la Guerra. Dopo il conflitto e il conseguente ritorno alla “normalità”, Gianni, Antonio e la sua nuova fidanzata, Luciana, si ritrovano a Roma, nella trattoria “Dal re della mezza porzione”. Siamo nel 1948, alla vigilia delle elezioni politiche: ad un tratto, Antonio, mosso dal suo idealismo congenito, propone un brindisi: “E che le mezze porzioni diventino intere per tutti!”.

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È proprio il tema della “mezza porzione” il motore e, al contempo, il fil rouge della storia di un’amicizia e di grandi ideali che incarna, in piccolo, il divenire dell’Italia postbellica: da una parte c’è Antonio, il sognatore che vuol risorgere dalla miseria e i cui impeti di cambiamento hanno riscontro nelle proposte del Fronte Popolare, poi c’è Gianni, l’avvocato brillante e incorruttibile e infine Nicola, il romantico professore fuggito dall’asfittica realtà del paesino affinché il suo empito di cultura trovi accoglimento nella mentalità più aperta della città.

Ma se già al termine del film è forte la melancolia, forse proprio a causa di quella “mezza porzione” che, per pochi, si è fatta intera al prezzo dell’integrità morale mentre per i più è divenuta addirittura insipida, priva del sapore della speranza, allora mi chiedo: nel 2020, un momento storico in cui la porzione si è fatta intera ed è anche raddoppiata, se non per tutti, per una vasta maggioranza, perché brancoliamo in un senso di inadeguatezza così estremo?

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Riflettiamo sulla situazione attuale, una situazione terribilmente anacronistica, in cui un virus ci costringe da un paio di mesi alla reclusione totale: nella tragedia, abbiamo riscoperto l’umanità, gli affetti e un desiderio quasi atavico di ritorno alla socialità fatta di carne ed emozioni. Ci è voluta una privazione, una catastrofe, per farci tornare a vivere come “animali sociali”: paradossalmente, l’opulenza ha intorpidito i sensi anziché rinvigorirli. La “porzione intera” ci ha impigriti e non è stata quel traguardo che i nostri avi auspicavano, quel minimo comune denominatore che, per sua natura, avrebbe posto le premesse per una trasformazione esistenziale, per un miglioramento continuo.

Dietro ogni forma di ricchezza c’è il sacrificio, ma nella società dell’apparire lo sforzo di quel gesto è occultato dall’avidità e non dalla più spontanea gratitudine, neanche verso se stessi. Non sto, con queste parole, stigmatizzando l’ambizione, quanto più il traslarsi del suo baricentro su un piano effimero, sull’avere in virtù dell’ostentare, sull’essere vuote forme anziché contenuto pregnante.

E nel momento in cui, per un crudele scherzo del destino, le vetrine delle vite si sono svuotate e siamo rimasti nudi con noi stessi, abbiamo portato alla luce gli scampoli del passato, sorprendendoci di riscoprire la nostra peculiare memoria emotiva. Così, abbiamo recuperato l’uso originario di quelle vetrine, ora non tanto un vezzo bensì lo strumento necessario per restare uniti, in contatto gli uni con gli altri.

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Siamo tornati ad una sorta di nuova “mezza porzione”: in fondo, al tempo dei grandi ideali, si mangiava quasi esclusivamente per necessità. Ma anche Antonio, Gianni e Nicola se ne godono, ormai maturi e disincantati, un’ultima, esemplificativa di quanto la loro generazione, quella della rivoluzione, della miseria, del “boom economico”, sia incappata per prima in una rovinosa trappola di apatia: “Il futuro è passato e non ce ne siamo accorti” esclama Gianni recriminando i propri trascorsi.

E noi? Eredi delle lotte e degli sbagli del passato, figli delle aporie di un presente tanto globale quanto alienante, disponiamo di tutto a portata di mano e ce ne bardiamo nell’illusione di difenderci dalla crudeltà e di trovare un posto in una società più “difficile” di quella che abbiamo ereditato. Ingurgitare la “porzione intera” e fare il “bis” non corrisponde ad altro se non al vano tentativo di saziare l’inedia spirituale dirigendo pigramente l’attenzione, invece, verso ciò che è fugace.

Il fatto che ci sia voluta un’ecatombe per amplificare questo disagio, immanente ai nostri tempi, è eloquente. Se nel 1799 Francisco Goya affermava che: “Il sonno della ragione genera mostri”, noi, nel 2020, possiamo chiosare, in chiave più attuale, che anche la pennichella dopo un lauto pasto possiede la capacità di fare altrettanto.

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